L’anima e il gelato

È che l’anima a quel tempo, quando eravamo bambini, era di vetro, bastava uno sguardo cattivo e si rompeva in mille pezzi.

Era il tempo in cui avevamo i libri legati con l’elastico blu e nero, era il tempo in cui ci emozionavamo ad entrare in una cartoleria per comprare i quaderni a righe e a quadretti e poi la gomma e le matite e l’album da disegno. Per noi bambini, a quei tempi, erano cose preziose, da odorare, da trattare bene. E poi che dire della carta assorbente che serviva per asciugare l’inchiostro che adoperavamo per scrivere con un pennino? Ogni banco di scuola aveva una fessura che conteneva inchiostro e, quando ci scappava una macchia sul foglio bianco, era come se ci fossimo macchiati l’anima.

Era un tempo di fatica e di attenzione alle cose.

Mia madre aveva nel salotto ancora il cellophane che copriva il divano e le poltrone e, se volevi entrare, dovevi metterti le pattine per scivolare sulla cera, che mia madre aveva messo per tenere lucido il pavimento. E il salotto, agli occhi di noi bambini, era un luogo sacro, come una piccola cappella dove, quasi quasi, per entrare, bisognava fare il segno della croce. Se mi concentro, sento ancora quegli odori, uno su tutti: il ragù che mia madre metteva sul fuoco il mattino presto. Eravamo fragili e felici, andavamo al cinema all’aperto, un po’ per sognare e un po’ per stare insieme. Ma il ricordo più profondo l’ho avuto una volta in cui mio padre e mia madre vollero fare una passeggiata in città, non ricordò perché o per cosa. Camminavamo, quando, ad un tratto, verso di noi, arrivò una madre con il suo bambino. Questo bambino aveva un cono gelato in mano e lo leccava dal di sotto per non farne colare neanche una goccia. Il gesto era semplice: chinava il capo, guardava il gelato, osservava dove allungare la lingua e lo leccava con grande piacere.

Io, vedendolo arrivare con quel gelato, con quel gesto, con quella lingua, crollai dal desiderio di averne uno anch’io. Ebbi la sensazione che l’anima mi cadesse ai piedi e andasse rotolando per la via, gli occhi e il capo mi si abbassarono, avevo la mano di mia madre che mi stringeva e io feci palpitare la mia come un piccolo cuore. Allora mio padre guardò mia madre e disse quella frase che ancora sento come un odore antico:
“Compriamogli il gelato che gli è caduta l’anima”. Come mio padre l’avesse capito, mi è sempre stato un mistero. Mia madre mi comprò il gelato. “Limone e cioccolato”, dissi.
Limone piaceva a mia madre, cioccolato a mio padre. Quando ebbi il gelato fra le mani, chinai il capo, allungai la lingua e, come una preghiera, lo leccai. Alla prima leccata, l’anima che rotolava rientrò in me, io la sentii fragile e umana e allora sorrisi e leccai il gelato lentamente per farlo durare più a lungo.

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